Intervista a Joe Kubert, faccia a faccia col Mito

Davide Occhicone con Joe KubertSiamo gentili ospiti, nella “The Joe Kubert School of Cartoon and Graphic Art” a Dover, NJ, del “preside” e proprietario della scuola, Joe Kubert. L’uomo è di una disponibilità disarmante; l’artista di una grandezza imponente, ingombrante, quasi si fa fatica a stargli vicino. È un pezzo della storia del fumetto americano vivente. Lo studio è grande e abbastanza pieno di sedie, tavoli, matite, pennelli, quadri, stampe e fumetti. Le scaffalature in legno raccolgono una discreta mole di albi a fumetti e di volumi d’arte; se solo dovessero raccogliere tutti i lavori da lui realizzati traboccherebbero. La stanza ha un soffitto molto alto, la luce è calda; di sottofondo c’é musica classica che, quando si tace per un momento, sembra alzarsi di volume. Durante l’intervista, alle 2:45 pm, sentiamo una campanella suonare; siamo in una scuola (nella stanza del preside direi), non dobbiamo dimenticarlo.
Le interviste realizzate via email sono liste di secche domande e lunghe ed articolate risposte, pensate, scritte dall’intervistato con la tranquillità necessaria ad articolare il pensiero, a decidere cosa dire o no. Questa non è così: è un batti e ribatti con un uomo di enorme disponibilità, esperienza, conoscenza nell’ambito fumettistico che non si sottrae al dialogo con chi gli parla. È una chiacchierata a tratti molto informale e la trascrizione è fedele alla stessa. Alla fine dell’ora e mezza di conversazione, affabile e piacevolissima, tante idee, tanti appunti e tante domande restano sui fogli di chi vi scrive, ma non volevamo essere d’ulteriore disturbo ed abbiamo, come si suol dire, alzato i tacchi. Eppure, credeteci, di fronte a tale disarmante disponibilità e grandezza, se avessimo potuto, non ci saremmo più alzati da quella sedia, per rimanere così a diretto contatto con la Storia del Fumetto.

Allora, Sig. Kubert, grazie per la gentile ospitalità, inizierei con il chiederle…
Vorrei io iniziare con una domanda sulle convention di fumetti; si tiene sempre la convention a Lucca?

Sì, una volta all’anno, ma precedentemente era addirittura due volte all’anno. Più o meno Lucca è da sempre il centro della cultura fumettistica in Italia; abbastanza strano perché non è una città grandissima, ma ha anche un museo sui fumetti. Poi ci sono comunque altre convention a Milano, Roma, Napoli…
E di Bonelli che mi racconti: come vanno le sue cose?

Bonelli (la casa editrice -ndr) se la cava abbastanza bene. Non stiamo vivendo un periodo economico molto bello ed in questi momenti di solito le prime spese che si tagliano sono quelle dei prodotti di svago. Hanno chiuso alcune serie ed altre sono passate dalla periodicità mensile a quella bimestrale (ma aumentando il numero di pagine). Bonelli (Sergio -ndr) ha dovuto fare alcune scelte ma ama il fumetto.
È davvero un’ottima persona.

Sì, forse anche troppo. Dirige la sua azienda con passione, speriamo non finisca mai.
Credo che sia il suo cuore a guidare lui e la sua azienda. La sua passione pesa più dei profitti. Mi mandano i loro fumetti tutti i mesi; quasi ogni settimana. Mi piace guardarli, mi interessa molto guardarli.

Ha letto il libro The amazing adventures of Kavalier & Clay di Michael Chabon?
No, mi spiace [1].

Beh, durante gli ultimi mesi ho letto tre, quattro libri sul periodo della “Golden Age” (1938-1945) in Usa… chi aveva creato questo personaggio, chi aveva comprato tale casa editrice…
…quindi ora probabilmente ne sai anche più di me… (il che è un paradosso, visto che Joe Kubert ha lavorato e vissuto durante quel periodo in quell’ambiente lavorativo -ndr)

Questo libro è ambientato durante quel periodo nella città di New York e mischia eventi reali (e autori ed editori realmente esistiti) con inventati. Lei, comunque non è citato. Alla fine del libro il personaggio principale (Kavalier) decide di creare una lunga graphic novel (la storia del Golem). Questa realizzata sono a matita senza inchiostratura, come la Sua “Yossel: 19th April 1943”. Abbastanza singolare, un autore (Kavalier) ebreo che viene dall’Europa (Praga) che realizza una graphic novel disegnata a matita che racconta una storia ebraica. Come ha fatto Lei in “Yossel”, in pratica. Ho molto apprezzato il fatto che ha avuto il coraggio di realizzarlo solo a matita; la sua grande esperienza è probabilmente il motivo che le permette di pubblicare il libro solo con matite “schizzate” e senza inchiostratura. In che anno ha completato l’albo? Il 2002, non ricordo…
Non ricordo neanche io! (ride e chiaramente mi prende in giro, ndr)

Comunque, ha avuto il coraggio di chiudere questo lavoro “non completo” (senza inchiostratura, colori, baloon); il coraggio di chiudere la storia senza un lieto fine… ha visto il film “Il pianista?”
Sì, un film davvero eccezionale.

“Il pianista” [2] è basato su una storia vera ed ha un lieto fine; “Yossel” non è basato su una storia vera e non ha un lieto fine.
Non possiamo credere che ci sia sempre un lieto fine.

Sembra che abbia voluto mostrare le cose vere e sottolineare il fatto che la memoria e molto importante; perfino dopo 60 anni dobbiamo ricordare. Credo abbia avuto coraggio nel dirlo.
Grazie.

In “Yossel” c’é anche questo mix fra personaggi realmente esistiti e inventati. C’é Mordechai Anielewicz [3] che realmente è esistito.
Esatto.

Cio’ che gli accadde è esattamente quello che racconta in “Yossel”.
Esatto.

Ci racconta qualcosa sulla genesi del libro?
Sì. Domanda interessante. Sapevo cosa fare nella storia. Quando ho iniziato sapevo esattamente che storia volevo raccontare. E quando ho iniziato a disegnare, dopo una dozzina di pagine ho capito che ciò che volevo era fare sentire al lettore come se io stessi disegnando proprio in quel momento, mentre le cose accadevano. Come se stesse guardando da dietro le mie spalle. Volevo mostrare i disegni non completi con le chine perché in quelle circostanze nessun disegno poteva essere completato. Perché tutto era realizzato di corsa, tutto velocemente. Anche quando Yossel ha la capacità ed il tempo di finire i disegni non lo fa; vuole solo preoccuparsi di iniziarne un altro, ed un altro ancora. Che è verosimile; è verosimile per chiunque voglia disegnare.
Quando ho realizzato le matite ho pensato che quello era il modo in cui doveva essere realizzato il volume; dovevo lasciare tutto in quel modo. Non avrei dovuto provare a inchiostrarlo, cosa che avrei fatto normalmente come faccio con tutti i miei disegni, semplicemente perché sarebbe stato meno efficace con l’inchiostro piuttosto che così, solo con le matite.

Ma è anche vero che ha potuto lasciare il lavoro senza inchiostratura anche grazie alla sua grande esperienza (non per sottolineare l’età) e autorità nel campo fumettistico. Comunque, tornando al libro, alla fine lei uccide, fa morire Yossel. Un qualcosa fatto per ringraziare Dio per quello che in realtà è successo a lei?
Sì, Sì. Sono quasi certo che se mio padre e mia madre non avessero deciso di venire in America sarebbe successo anche a me. Tutti i fratelli di mio padre, le sorelle e gran parte della sua famiglia è stata uccisa, sparata per strada, assassinata per strada. E sono sicuro che questo sarebbe successo anche a me, a noi, se mio padre non avesse deciso di venire qui.

Il ragazzo del libro, Yossel, per caso somiglia anche fisicamente a lei da ragazzo?
Sì, hai indovinato.

Immaginavo fosse così ma visto che alla fine muore non ero del tutto sicuro lo avesse disegnato come lei da bambino.
(ride, ndr) Anche I genitori di Yossel nel libro sono molto simili ai miei.

Quasi al centro del romanzo c’é l’immagine molto forte dell’uomo che viene fatto entrare nel forno crematorio. Da questo punto in poi le vicende si susseguono con gran velocità e vediamo come gli Ebrei Polacchi decidano di combattere gli invasori. Dopo le prime 40 pagine il sorriso era già scomparso sulle labbra di Yossel; poi, dopo questo punto di svolta di cui sopra, veniamo portati verso la fine del libro. Nell’ultima pagina vediamo un foglio da disegno di Yossel che dovrebbe essere disegnato ma in realtà è vuoto.
Avrei potuto raccontare la fine della storia mostrando in che condizioni Yossel era arrivato alla fine. Avrei potuto finire il libro in tanti modi diversi. Anche solo disegnando come in realtà sono andate le cose (io e la mia famiglia al sicuro in America). Ma sentivo di doverlo fare così ed ho finito la storia così come sentivo di doverlo fare. Alla fine anche i disegni svaniscono, se non hai fortuna, se non sei fortunato. Non resta nulla.

Solo una nota; guardando con attenzione nel volume noterà che Yossel è davvero così bravo a disegnare che lo fa anche meglio di Lei; quasi come se volesse renderlo ancora più “dotato” di se stesso.
(ride, ndr) È divertente. Probabilmente dentro di me qualcosa mi ha spinto a farlo ma non l’ho fatto di proposito!

Non so se ha avuto l’occasione di vedere la Graphic Novel “Auschwitz” [4] di Pascal Croci; alla fine del volume ha scritto che è stato costretto a realizzarlo con i grigi senza colore perché ha parlato con sopravvissuti del campo di concentramento di Auschwitz e tutti hanno detto che ogni cosa era…
…grigia, esatto. Ho letto, penso, almeno 10 libri; ho visto molte fotografie, piante di come erano i campi di concentramento e ogni cosa era sempre grigia.

In inglese, come in italiano, campo di concentramento ora è sinonimo di posti dove si moriva.
Sì.

Pensando un attimo all’esatto significato delle parole (campo di concentramento) si noterà che quei posti dovevano essere posti dove le persone venivano concentrate…
…messe insieme, sì…

…ma ora queste parole per esteso hanno un significato differente. In quel momento erano solo campi di concentramento e nessuno poteva immaginare (o credere) che in realtà erano posti dai quali non sarebbero usciti vivi. Le persone non erano in grado di capire cosa stesse succedendo.
…sì, esatto.

E penso che questo si desuma dal libro.
Bene. Bene. Questo è quello che ho cercato di fare.

Il sunto più efficace e ripetuto di “Yossel” è nella frase “la strada non presa” [5]. Vuole aggiungere qualche commento?
Beh, questo è il motivo che mi ha spinto a realizzare il libro. Come ho detto qualche altra volta in altre interviste, abbiamo questo museo a Washington, il Museo dell’Olocausto [6]; un paio di anni prima di realizzare il volume io e mia moglie Muriel andammo a visitarlo. Credimi, girare lì dentro è stata un’esperienza davvero incredibile…Voglio dire, sono nato in Polonia e lì c’erano tutto intorno foto dei posti vicini al paese dove sono nato. Beh, pensai di voler fare qualcosa come Yossel; sono stato molto fortunato per tutta la mia vita, sembra. Sì, sono stato molto, molto fortunato.

Credo che quello che ha realizzato qui (la Joe Kubert School of Cartoon) è qualcosa di veramente importante; alla sua grande carriera di artista può sommare il successo avuto nell’avventura di questa Scuola dai risultati così concreti.
C’é ben più di che essere soddisfatto. Mi ritengo benedetto ogni giorno. Sono stato fortunato con i miei figli, con i miei nipoti, con l’ottima accoglienza che il mio lavoro ha oggi dopo aver lavorato per 60/65 anni. Per questo sono molto, molto fortunato e mi ero reso conto all’epoca di Yossel che sarebbe potuto essere molto differente se mio padre e mia madre non avessero deciso di venire in America. E, in realtà, non avevano neanche dei validissimi motivi per farlo.

Questo probabilmente la fa sentire ancora più a disagio riguardo quanto accaduto. Gli Ebrei che dopo il ’37/38 volevano andar via dall’Europa non potevano più farlo (e buona parte di essi furono uccisi); i suoi genitori non avevano particolari motivi per lasciare la Polonia (era il 1928) ma ce la fecero.
Ma era prima di quegli anni terribili.

…non tanto prima…
…3/4 anni dopo oppure 10 anni divento’ impossibile andare via. E passare attraverso tutto ciò ed essere stato nel Museo, e pensare a tutto questo… (comprensibilmente, nel racconto, si blocca, ndr)
Alla fine mi sono ritrovato con questa storia che per me era molto importante e, fino alla conclusione, non l’avevo mostrata ad alcun editore, come avevo fatto in precedenza con “Fax from Sarajevo”. Mi sono comportato in questo modo perché così sentivo di dover fare. Avevo completato il lavoro e nessun ulteriore intervento poteva essere fatto una volta completato il libro. E non sapevo se qualcuno lo avrebbe mai pubblicato. Quando ho iniziato a mostrarlo in giro ad un paio di persone ho avuto 3, 4 editori pronti a pubblicarlo. Alla fine lo pubblico’ la Dark Horse semplicemente perché poteva realizzare il volume esattamente come io lo volevo.

La sua esperienza e la mole di lavoro alle sue spalle è ciò che le ha permesso di decidere come realizzare il volume…
Ti diro’ qualcosa che ti potrà interessare. Circa 3 o 4 mesi fa ho completato un volume, dal titolo “Jew Gangster” (Gangster ebreo, ndr).

Ambientato in…
Prende le mosse nei primi anni ’30 a New York, a Brooklyn, dove gli Ebrei erano davvero in gran parte gangster a quei tempi. Ad ogni modo, è successo che avevo un contratto con la DC. Paul Levitz (il presidente della DC) era mio assistente quanto ero editore alla DC e aveva tanto insistito affinché realizzassi il libro per loro. Non era ancora finito, era stato completato per tre quarti, avevamo tutti gli accordi ma qualcuno alla DC pensava che il titolo fosse troppo forte. Il titolo poteva causare problemi. Ho detto “assolutamente no, non cambiero’ il titolo”. E, nonostante il fatto avessi firmato il contratto, ho ripreso il lavoro consegnato e l’ho pubblicato con un altro editore (Ibooks – ndr).

Se dopo 60 anni deve cambiare un titolo ad un suo libro perché qualcuno in un ufficio crede che sia troppo forte…
Esattamente. Non lo faro, mai, in nessuna circostanza. Grazie a Dio sono ora in una posizione nella quale posso permettermelo. Cosa buona, ovviamente. Ed è per questo che mi ritengo fortunato.

Tornando a quello che raccontava del Museo dell’Olocausto, sa se il paese dove è nato (Yzeran) esiste ancora?
Anche questo è molto interessante. L’ho cercato spesso. Ed è spesso scritto in 3 o 4 modi diversi. Mi ha contattato una persona che sta scrivendo un libro; ha trovato che la città esiste ancora. Quest’uomo mi ha detto che ha trovato dei registri ufficiali di questa città dove sono segnati i nomi dei miei genitori. È qualcosa di solo 70 anni fa ma in Polonia alla fine degli anni ’30 alcuni paesi sono semplicemente scomparsi; tutte gli abitanti uccisi, tutte le case distrutte… Pensavo che Yzeran fosse uno di questi paesi. Ma questo tale ha cercato e ha trovato il posto ed il nome di mio padre in questo registro di anagrafe!

A proposito di suo padre; in che modo le ha trasmesso le tradizioni ebraiche? Normalmente il passaggio generazionale è parte importante della vostra religione. Per esempio, durante la Pasqua Ebraica (chiamata Pesach) gli anziani di solito raccontano ai ragazzini la storia di come gli Ebrei si liberarono…
…esatto, quando lasciarono l’Egitto.

…beh, “Yossel: April 19th, 1943” prende le mosse il 18 Aprile 1943, proprio il giorno della Pasqua Ebraica. Suo padre ha trasmesso a lei le nozioni e usanze ebraiche in modo tradizionale?
Sì, i miei genitori si sono comportati così con me, ed è in questo modo che mi sono comportato con i miei figli. E spero che i loro figli ricevano gli stessi insegnamenti a loro volta. È molto importante. Non solo ricordare la storia, ma è importante per ogni persona sapere che sono una parte importante di quello che accade.

Quello che ha appena detto mi porta ad un altro argomento. Sembra incredibile ma ho trovato una linea rossa che attraverso la sua intera produzione a fumetti. È folle pensare che ci sia qualcosa in comune nel volume incredibile delle sue realizzazioni, ma credo ci sia, e la chiave di lettura è ciò che ha appena detto sulle “persone”. Ha spesso raccontato storie di uomini (quasi sempre) soli che affrontano grandi problemi trovandosi in momenti difficili (Sarajevo negli anni ’90, la Seconda Guerra Mondiale, l’Olocausto, la Depressione in Usa…) che sono in realtà persone “normali” in ambienti difficili. Si è sempre interessato delle vicende dei suoi personaggi (in questi scenari difficili) spiegando che c’é una “Storia” che si può leggere nei libri ma che c’é anche una “storia” fatta dalle persone normali che combattono e vivono tutti i giorni.
Sì, sono d’accordo. È un espediente narrativo. Non so se l’ho sempre fatto di proposito o che altro…

Forse ha sempre sentito la necessità di prestare attenzione alla storia del suo personaggio.
Esattamente. Ho sempre voluto che il lettore si identificasse nella storia che raccontavo.

In effetti, anche nelle storie di guerra, quasi mai ha indugiato su carneficine provando piuttosto a rappresentare gli stati d’animo tormentati dei soldati.
Esatto, esatto.

Considerando il numero di fumetti realizzati, è importante poter trovare tutto ciò in quasi ogni sua realizzazione. Anche il fatto che non ha quasi mai disegnato supereroi in 60 anni di carriera (ed il mercato propone per il 90% solo supereroi) sottolinea che le piaceva raccontare storie senza “super” uomini.
Sono stato molto fortunato a lavorare così tanti anni anche senza realizzare supereroi (ride, ndr).

Torniamo di nuovo agli anni ’30. Lei frequenta in quel periodo la New York High School of Music and Arts: cosa si studiava in quella scuola a quel tempo?
Ah, quella scuola era eccezionale. Si frequentava dall’ottavo anno al dodicesimo. Sono gli anni della scuola superiore (la High School). Dovevi sostenere un test in materie artistiche per poter essere accettato. Inoltre i tuoi voti, non importa la materia, dovevano essere alti per poter entrare nella scuola. Oltre ai corsi normali (come matematica, scienza e così via) c’erano due corsi speciali (come uno nel quale insegnavano a disegnare dal vivo – ma solo da modelle vestite! o da oggetti). Cio’ che ho avuto dalla mia esperienza in quella scuola è stato l’aver imparato a disegnare. Per molti giovani disegnatori di fumetti il modo di imparare a disegnare è guardare altri fumetti; ma non è la strada giusta per imparare. Perché i disegni di un altro artista sono sempre il suo modo personale di interpretare cosa sente. È come imparare a scrivere usando come riferimento i fumetti; dovresti essere pazzo per farlo. Ed allo stesso modo è da pazzi credere di poter imparare a disegnare guardando altri fumetti. Perché in questo modo non ti assicuri le basi per poterlo fare. In quella scuola insegnavano le basi. Ho successivamente disegnato fumetti (non c’erano, all’epoca, corsi di fumetto) ma sono stato in grado di usare ciò che ho imparato in quella scuola per fare quello che volevo.

In quel tempo, alla fine degli anni ’30, probabilmente nessuno pensava che disegnare fumetti potesse essere un lavoro serio.
Ho avuto il mio primo lavoro in questo campo quando ancora ero alla High School a New York, quando avevo dodici anni! Già lavoravo! Il boom dei comic books [7] scoppio’ un paio di anni dopo e li adoravo! Prima di quegli anni esistevano le strisce a fumetti sui giornali, come Price Valiant, Tartan, Flash Gordon

separatorearticoloSe parliamo degli autori di queste strisce (come Foster, per esempio) parliamo di qualcuno che è riduttivo indicare come autore di fumetti, erano Artisti a tutto tondo!
È giusto. E amavo i loro lavori. Proprio niente da invidiare all’arte.

La fine degli anni ’30 in Usa videro l’inizio del grande successo di pubblico dei fumetti.
Beh, quasi nessuno fra chi realizzava fumetti a quei tempi raccontava che tipo di lavoro facesse. Avevano tutti vergogna.

…più o meno come oggi?
Oggi molto meno, direi.

Alfredo Castelli, noto autore italiano nella sua interpretazione personale di un 24h comic (www.24hic.it/cosa) ha raccontato come ancora oggi un autore di fumetti sia spesso restio a spiegare cosa fa nella vita come “disegnato” nella tavola n.13 (www.24hicstoria.castelli) [Racconto in breve quanto scritto da Castelli suscitando grasse risate in Kubert, ndr].
Tornando al suo mestiere: credeva che avrebbe vissuto una vita intera realizzando fumetti?Non ci pensavo in alcun modo. Era qualcosa che avevo sempre voluto fare. E già da ragazzino avevo avuto la possibilità di farlo come lavoro…

…con un compenso di $5 a tavola?
No, all’inizio erano 5$ alla settimana. Sono passato a 5$ a pagina quando ho pubblicato la mia prima striscia, ma usualmente il compenso era di 5$ a settimana.

Il costo dei fumetti era 10 centesimi, esatto?
Esatto.

Come i romanzi pulp?
Probabilmente i pulp costavano 15 centesimi.

Beh, quei romanzi constavano in centinaia di pagine scritte da entusiasti giovani pionieri del genere, ma spesso erano piene di errori (di ortografia, grammatica, erano scritte in pochissimo tempo e senza quasi revisione). Riuscivano pero’ a catturare l’attenzione del lettore, erano eccezionali in questo.
È vero. Oggi si pensa a loro come ai pionieri che hanno creato la SF. Come dicevo prima, devi solo lavorare e soprattutto vivere abbastanza a lungo, da trovare qualcuno che, prima o dopo, apprezzi quello che hai fatto in passato.

Quindi ha imparato a realizzare i fumetti semplicemente realizzandoli.
Beh, quella è stata un’opportunità che ho avuto semplicemente a causa dei tempi contingentati che avevamo per produrre i fumetti: 64 pagine erano un numero enorme di pagine da riempire! E così anche per i giovanissimi come me, al loro primo lavoro, a 13 o 14 anni… beh, spesso pero’ erano lavoracci, i disegni erano pessimi. Non so se i miei erano buoni ma cercavo di fare le cose al mio meglio. Mi hanno letteralmente dato l’opportunità di imparare il lavoro facendolo.

Ma dopo tanti anni oggi lei sembra dare grande attenzione al fatto che per realizzare un fumetto significa dover fare molte altre cose oltre che a disegnare una tavola.
Oh sì!

Il tavolo di lavoro di KubertL’idea che “fare fumetti” corrisponda a disegnare e basta è sbagliata.
Non è solo disegnare, esatto.

Tornando ai suoi inizi; mi sembra di aver capito che all’epoca c’erano studi con 5/10 persone che disegnavano aiutando come assistenti le”star” di prima grandezza.
Bob Kane aveva molte persone che lo aiutavano quando realizzava Batman; Jerry Robinson, uno degli disegnatori più importanti, era anche lui uno degli assistenti di Kane in principio. Molti artisti avevano bisogno di assistenti; ancora di più quelli che realizzavano fumetti per i giornali, per i Syndacate [8]; a causa delle scadenze c’erano molte cose da fare ed avevano bisogno di aiuto per completare il tutto. Beh, i risultati non erano eccezionali. A molti disegnatori a quei tempi piaceva sì disegnare, ma anche guadagnare un po’ di soldi!

Ha iniziato come assistente per qualche altro autore?
Non sono mai stato un vero e proprio “assistente”; non ricordo di esserlo mai stato per nessuno, a dire il vero. Ma da ragazzo ho lavorato per Will Eisner, sì, nel suo studio. Credo di aver visto Will solo un paio di volte in quegli anni ma lavoravo lì, comunque. Cancellando le matite sulle tavole, facendo un po’ di tutto. Ero ancora alla High School.

Se devi imparare a fare fumetti niente di meglio che imparare da Will Eisner
Eh sì. Solo successivamente è diventato uno dei miei migliori amici.

Ha dichiarato spesso che ritiene che l’artista che realizza fumetti deve avere il controllo completo del fumetto: è così?
Oh, penso che sia molto importante, fondamentale. L’ho anche sempre detto ai miei figli, credo sia veramente importante. Se tu realizzi interamente il lavoro da solo, quel lavoro ha una sorta di unicità speciale, quello è il tuo lavoro, è un’immagine di te stesso. Se realizzi le matite e c’é qualcuno che le inchiostra, non è che debba essere per forza peggio, ma è sicuramente differente. E non è più il tuo lavoro.

In questo caso, realizzi le matite ma non sai come sarà il fumetto alla fine, dopo l’inchiostratura.
Esattamente. E, oltre a questo, con i vari tipi di stampa ed i vari tipi di colorazione che abbiamo ora, il risultato finale è ancora più distante dalla matita. Per gli editori questo è un bene perché hanno più persone che si occupano dei vari momenti della realizzazione e possono soddisfare le scadenze più velocemente (rispetto all’affidare tutto alla stessa persona, ndr), ma per l’artista non è una cosa buona. Perde la propria identità; perde la sua personalità e probabilmente non riesce neanche a guadagnare così tanti soldi come una volta.

In Italia non abbiamo questa divisione fra matitista e inchiostratore; si pensa che il disegnatore debba occuparsi di tutte e due le cose.
Lo so, è abbastanza differente fra Europa e Usa.

Per realizzare un albo formato “Bonelli” il disegnatore deve disegnare e inchiostrare 100 pagine.
Lo so, lo so. Ho realizzato un Tex per Bonelli [9], una storia intera e ci ho messo… beh a dire il vero ho cercato di non continuarlo dopo aver realizzato appena un paio di tavole. Gli dissi che c’era troppo lavoro da fare; non volevo farlo all’inizio proprio per questo motivo, lo sapevo che c’era troppo lavoro da fare. Più di 200 tavole…

…normalmente la lunghezza media di una storia di Tex…
…ma insistevano sul fatto che dovessi continuare. Dissi a Sergio: Guarda Sergio, non saro’ mai in grado di portarlo a termine. Prendi i soldi indietro, ridammi i disegni che ti ho mandato”. “No, no, no” fu la risposta di Bonelli. E mi ha preso più di sei anni di tempo realizzare il volume. Quando accettai il lavoro dissi che ci sarebbero voluti due/tre anni di lavoro perché non volevo sospendere tutte le altre cose che stavo facendo al momento.

Ho letto qualcosa riguardo a cosa pensa debba essere un disegnatore. Deve, secondo lei, fare qualcosa in più che disegnare…
Sì.

E inchiostrare…

E fare il lettering…

E colorare…

E magari curare l’edizione?
Sì. Sono stato un “Editor” di testate a fumetti per 25 anni ed è quello che ora sto facendo per Sgt. Rock. Faccio quello di cui parlavo prima: disegno, inchiostro, curo l’edizione. Ecco, vedi, questo è il Preview [10] di questo mese e ci trovi la pubblicità del mio prossimo progetto, del quale mi occupo anche in veste di Editor [11].

(mostro allora al Maestro Kubert l’edizione Italiana di Yossel: 19th April, 1943, edita dalla Free Books [12])
Non sono sicuro di aver mai visto l’edizione italiana in precedenza. L’hanno realizzata esattamente con lo stesso tipo di carta. Bella, è stata realizzata bene.

Tornando a quello che si diceva prima. Come riesce ad insegnare questo tipo di atteggiamento nella sua scuola? Crede che un giovanissimo debba pensare solo a disegnare o solo a scrivere o solo ad occuparsi del lettering…
…o solo a trovarsi un lavoro (ride -ndr).

…oppure dall’inizio cercate di insegnargli a fare tutto?
L’ultima cosa che hai detto è esattamente quello che cerchiamo di fare. Ci sono una quantità enorme di cose da sapere per essere in grado di fare questo lavoro in maniera corretta. Ed ognuna di tutte queste che devi conoscere possono portarti a trovare un lavoro. Perciò insegniamo tutto: disegno, inchiostratura, lettering, colorazione, etc. e, soprattutto, insegniamo disegno dalle immagini reali, non usando fumetti come riferimento. La maggiore quantità possibile di abilità, di possibilità che ogni studente può sviluppare.

Questo si traduce nel controllo completo della realizzazione artistica. Perfino avere conoscenze nel campo della stampa è importante, esatto?
Assolutamente sì. Quando ho consegnato il volume di Yossel all’editore sono stato io ad aver detto loro come stamparlo; sapevo, prima che fosse pubblicato, come sarebbe stato realizzato.

Sapeva che tipo di carta usare, esatto?
Esatto. Non significa che al loro primo lavoro da professionisti (con le capacità che lo studente ha una volta uscito dalla Scuola) gli verrà richiesto questo tipo di attenzione totale. Ma devono sapere, nell’eventualità che accada, cosa si deve fare. E per riuscire a iniziare a lavorare devono essere in grado di fare tutto.

Non si preoccupa del fatto che forse i suoi studenti vogliono solo disegnare e non si preoccupano della sceneggiatura, magari?
No, perché in questo modo non riusciranno mai a farne un lavoro vero. Su 50 persone che si sono diplomate in questa scuola forse solo 5 riusciranno ad avere il loro primo lavoro in ambito strettamente fumettistico. Per molti altri (pensa al fatto che abbiamo una percentuale di occupati dopo il diploma del 90% circa) il futuro lavorativo non sarà in quell’ambito, ma nell’animazione, nello storyboarding, nella pubblicità, nell’illustrazione (di libri per adulti e per bambini). Trovano lavoro in tantissimi campi.

Solitamente esprime questo suo punto di vista sulla completa conoscenza del fare fumetto a chi inizia a frequentare la sua Scuola?
Sempre. Non solitamente, sempre.
Ogni persona che viene alla Scuola sostiene un colloquio molto approfondito. Con me (succedeva prima) o con le persone che ovviamente mi aiutano in questo lavoro. Devono capire che quanto vengono qui c’é da sostenere un impegno di 10 corsi differenti in 10 materie che tutti devono seguire. Non possono scegliere solo quelli che vogliono. E se non fanno come diciamo non li facciamo entrare. Ma anche se vengono qui e ci dicono “Ok, faro’ quello che dite” e non lo fanno bene, non superano con profitto i vari corsi, li cacciamo. Devono ascoltare quello che diciamo e devono fare tutto per bene perché così hanno possibilità di avere un lavoro. Altrimenti non devono venire qui; hanno sbagliato posto, sprecano il loro denaro e il nostro tempo.

Come possiamo inquadrare la sua Scuola nell’organizzazione scolastica americana?
Questa è una scuola post-High School; devi essere diplomato alla High School (la scuola superiore, per intenderci -ndr). È una “Commercial School”. Non vengono qui per ottenere una Laurea.

Alla fine della High School, infatti, ci sarebbe il College (dove si ottiene la Laurea)…
…esatto.

Ma qualcuno decide di venire qui.
Esatto. I più giovani hanno almeno 18 anni. Ma ce ne sono anche di più grandi. Magari sposati e con figli. Vengono da ogni parte del mondo per frequentare questa scuola; arrivano da posti dei quali non ho mai sentito neanche il nome. È merito di Internet; raggiunge chiunque ovunque.

Ma anche prima dell’avvento di Internet la sua Scuola era molto famosa in tutto il mondo. Ha iniziato nel 1976…
…sì, esatto.

Anche se non in questo palazzo, per la precisione.
No, ma era comunque un posto molto grande. Era una casa residenziale ma avevamo 23 stanze ed era lo stesso a Dover. Avevo comprato quella casa.

Ma questo palazzo dove siamo ora, originariamente era una Scuola, esatto?
Esatto. Vivo in questa città, Dover. E questa era la High School di Dover.

Sì, ho visto all’entrata le due porte, a destra e a sinistra, per far entrare da un lato i maschi e dall’altro le femmine.
I miei figli hanno frequentato la High School in questo edificio; e non avrei mai sognato che un giorno l’avrei addirittura comprato. Ma, come succede in molti posti, ci sono variazioni demografiche importanti e, ad un certo punto, l’edificio fu messo in vendita: era circa il 1990. La vendevano semplicemente perché non c’erano abbastanza ragazzi per riempire la Scuola.

E cosa altro si può fare in un palazzo costruito per ospitare una scuola se non metterci un’altra scuola?
Sì. Non ho dovuto fare niente altro. Abbiamo un auditorium, una palestra, una sala mensa al piano di sopra. È un palazzo molto grande.

Ho una domanda strana e spero di non essere frainteso: parecchi critici hanno notato che il 90% degli autori di fumetti che hanno fatto la storia del fumetto “made in Usa” (in pratica quelli della sua generazione) era di origine ebraica: coincidenza o che? Che ne pensa?
Credo sia successo per caso. Se guardi alla storia dello sport magari trovi qualche analogia. In quel periodo molti pugili erano ebrei. Era un modo facile per fare soldi; lasci che qualcuno ti dia qualche colpo in testa e fai un paio di dollari. Poi le cose sono iniziate ad andare mediamente meglio per gli ebrei ed arrivarono i pugili di colore. Avevano necessità di far soldi e sostituirono gli ebrei. Nel campo fumettistico c’erano moltissime persone a lavorare che non fossero ebrei, ma gran parte venivano dai ceti più poveri. Persone che avrebbero fatto di tutto per sfangarla.

Ma se guardiamo alla lista incredibile di autori: Kane, Shuster, lei, Eisner
Davide, allora lascia che ti dica qualcosa di interessante su Eisner. Eisner lavorava per persone che non erano ebree; i suoi capi non lo erano. Ce n’erano tanti a lavorare per Gaines, ma lui non lo era. Quindi, disegnatori e scrittori sì, tanti, ma editori nessuno.

Non che mi stia lamentando di questa presenza massiccia! Era una constatazione.
Beh, nessuno in realtà mi ha mai chiesto se ero ebreo quando ho iniziato a lavorare e non ho mai saputo se chi lavorasse con me fosse ebreo o meno. La storia oggi ci dice che in quel momento a nessuno importava.

Pero’, che lista eccezionale, continuerebbe ancora… Simon, Kirby
Jack Kirby aveva anche cambiato il suo nome [13].

Ma la percentuale sul totale è davvero alta. Ripeto, non mi lamento mica!
Beh, io non sto cercando di difendere nessuno.

Bene, perché io non sto cercando di attaccare nessuno!
(ride -ndr) È stata una situazione particolare. Mi è stata posta questa domanda diverse volte; come mai credi che tanti ebrei si siano dedicati con successo a questo lavoro. Non ne ho idea. E non ne ho mai discusso con alcuno dei miei amici e, per esempio, Carmine Infantino (era uno dei miei migliori amici), o Joe Giella, o Frank Giacoia, certamente non era ebreo, era Italiano! La curiosità è venuta fuori solo anni dopo.

Forse negli anni ’30 gli Italiani in America erano più interessati nel business della vendita di alcool di contrabbando…

Qualche domanda, in coda, extra fumetto. Le piace viaggiare?
Sì.

Mi chiedevo se fosse possibile per lei lasciare la Scuola per periodi lunghi.
Infatti, no (ride, ndr). Mi piace davvero viaggiare e provo a farlo non appena possibile. Ti ho raccontato prima del viaggio a Washington…

Sì, la Capitale del nuovo mondo, Credo che debba pero’ visitare anche la Capitale del mondo antico, Roma.
Sì, e anche Firenze. Ci sono stato. Ma era davvero troppo affollata Firenze; troppi turisti davvero.

Deve provare a Novembre; di solito il tempo è buono e troverà sempre molti giapponesi a fare foto ma di certo molti meno turisti che in estate.
(ride, ndr) Ho guidato sulla Costiera Amalfitana, andando verso quel bellissimo paese sulla montagna sulla costa…

Ravello
Esatto! Posti bellissimi (confermiamo, ndr). Un paio di anni fa ho preso con me i miei figli e i miei nipoti ed abbiamo girato parte dell’Italia in auto, girando fra le campagne toscane ed arrivando fino in Campania.

Deve essere stato interessante trovarsi in un altro ambito culturale. Le faccio un esempio al rovescio; per un Italiano essere a New York è sempre molto simile a trovarsi dentro un film (visto quanti ne abbiamo visti ambientati a NY).
(ride, ndr) Beh, sì, capisco cosa vuoi dire. A dire il vero anche per chi viene dal New Jersey (40 minuti di treno da Manhattan, ndr) andare a New York è come entrare in un film (ride, ndr). Adoro andare a NY, c’é tutto quello che ti può servire.

In chiusura di intervista, prima di qualche curiosità extra fumetto, un appunto personale. Il tempo che ci ha dedicato è davvero significativo così come l’averci trattato in maniera gentile. Spesso è difficile contattare artisti che hanno alle spalle solo un centesimo della sua carriera e possiedono un centesimo della sua conoscenza del fumetto. La sua disponibilità non è qualcosa comune a tutti; serve a evidenziare la differenza fra chi ha successo immediato e chi conosce bene il lavoro duro che è alle spalle del successo vero.
È vero. Devi conoscere profondamente cosa fai e solo il durissimo lavoro quotidiano può ripagarti.

Grazie mille Mr. Kubert, è stato un piacere conoscerla personalmente.

Intervista rilasciata  dal vivo a fine 2005.

Note
[1] “The amazing adventures of Kavalier & Clay”: l’edizione Usa; l’edizione Italiana
[2] “Il pianista”: www.thepianist-themovie.com
[3] Biografia di Mordechai Anielewicz: www.olokaustos.org/opposizione/biografie/resbio/anielewicz
[4] “Auschwitz”: www.lamartiniere.fr/editeurs; www.ilmelangolo.com/schedausch
[5] “La strada non presa” è quella che la vita di Kubert non ha preso visto che i genitori lasciarono la Polonia prima dell’invasione nazista.
[6] “United States Holocaust Memorial Museum”: www.ushmm.org
[7] I primi “comic book” intesi nella forma di albo a fumetti “Usa” quasi del tutto uguali a quelli pubblicati oggi erano semplicemente raccolte di strisce a fumetti (tre per ogni pagina) già pubblicate sui quotidiani. La novità consisteva in buona parte nel dare la possibilità di leggere storie molto più lunghe ed articolate. Ben presto iniziarono ad essere realizzate storie “ad hoc” (non ristampe) e, contemporaneamente all’uscita degli Usa dalla Grande Depressione, inizio’ un vero e proprio boom per il Comic Book.
[8] I Syndacate erano (e sono) distributori di fumetti su scala nazionale che si occupavano (e si occupano tuttora) di acquistare le opere dagli autori e distribuirle su scala nazionale in Usa ed internazionale in tutto il mondo creando una rete di periodici che (raccolti sotto lo stesso Syndacate) pubblicano contemporaneamente lo stesso fumetto. Esempio classico il King Feature Sindacate (www.kingfeatures.com)
[9] “Tex: The Lonesome Ranger”: www.safcomics.com/publishing.shtml; http://www.sergiobonellieditore.it
[10] Previews: previewsworld.com
[11] “Sgt. Rock: The Prophecy” (6/6) DC Universe 32pg. Color (by Joe Kuber, Adam Kubert and Andy Kubert): www.dccomics.com/comics/?cm=4730
[12] “Yossel: 19 Aprile 1943”: www.free-books.it/it/fumetti/default.asp?id=201
[13] Jacob Kuzemberg (1917-1994), nato a New York da genitori Ebrei Austriaci, cambio il proprio nome in Jack Kirby prima di diventare il più famoso e importante autore di fumetti di supereroi (soprannominato comunemente “The King”).

 

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