Dimmi che non vuoi morire

Copertina del volumeIn Italia esiste da tempo ed ha una sua consistenza numerica e qualitativa un genere narrativo molto seguito ed altrettanto apprezzato. Il “nero” (“noir” per dirla alla francese) italiano non è solo la risposta colorata di bianco rosso e verde all’invasione delle serie televisive (trenta anni di repliche di telefilm gialli e polizieschi made in USA!), film e narrativa dello stesso tipo provenienti quasi sempre da oltreoceano; l’aggettivo “italiano” non ne indica, infatti, la sola, mera locazione geografica. Questa caratterizzazione non solo posiziona delitti, investigazioni, ambientazioni “thriller” e storie poliziesche nel nostro Bel Paese, ma soprattutto ne cambia spesso il mood, il modus operandi dei protagonisti ed anche spesso il lieto fine.
Non ci sono solo poliziotti, carabinieri, ispettori e questure che prendono il posto di detective privati (Private Eye), agenti FBI e Corti di Giustizia statunitensi ma, a ben guardare, c’é qualcosa in più. è interessante vedere come le storture del “terzo potere”, la precaria situazione sociale e la facilmente vincente malavita organizzata contaminino il genere e rendano le versioni italiane dei più famosi detective a stelle e strisce come delle versioni sfortunate e, spesso, malinconicamente più perdenti.[1]

Massimo Carlotto è appassionato cantore di questo genere ed ha realizzato, negli ultimi anni, un discreto numero di romanzi e mostrato una curiosa attenzione nei confronti di una serie di problematiche sociali prettamente italiane, puntualmente utilizzate, queste ultime, come spunti di scrittura. Appassionato del “nero mediterraneo” di Izzo, ha creato un personaggio, l’Alligatore, ormai protagonista “seriale” delle nelle librerie italiane ed estere,[2] che gli permette di scandagliare fra le pieghe e le piaghe dell’Italia di oggi. In ognuno di questi romanzi l’autore (cosa che succede anche in “Dimmi che non vuoi morire”) presenta ai lettori i protagonisti della storia; una introduzione che esalta la serialità di quella che ormai è una vera e propria collana; eppure, nonostante il successo, l’autore confessa di voler dare all’Alligatore un qualcosa in più rispetto al detective americano sempre uguale a se stesso in ogni romanzo; e pertanto esisterà (ed in parte esiste già) un filo rosso (di continuity) che farà sì che i lettori notino, nel tempo, una trasformazione del protagonista, che non può verosimilmente rimanere sempre immobile attraverso alcune, anche dolorose, esperienze ed in un mondo che si evolve.

L’introduzione, seppur lunga, è un un cappello obbligato alla presentazione del volume Dimmi che non vuoi morire. Un fumetto per caso, ci verrebbe da dire, che a prima vista sembra proseguire la serie dei romanzi dell’Alligatore offrendo ai lettori un capitolo “disegnato”; alle matite di questo volume troviamo Igort, al secolo Igor Tuveri, impegnato nella singolare impresa di continuare a raccontare, su soggetto di Carlotto, le avventure di Marco Buratti, investigatore privato senza licenza, ex galeotto, meglio noto appunto con il soprannome di Alligatore (dal nome del gruppo musicale in cui suonava prima dell’esperienza in carcere).
Interessante l’idea di proseguire a fumetti una serie di romanzi, altrettanto interessante ci sembra la realizzazione; in essa i due autori non riservano particolari sorprese a chi li conosce da tempo e va sottolineato come questo non debba suonare come un rimprovero. La combinazione delle due culture, delle esperienze di Carlotto e Igort, è uno stimolo creativo per entrambi, non a caso già avvezzi a collaborazioni con altri autori; dice Carlotto che “lavorare con altri aiuta a crescere. Gli “altri” hanno sempre qualcosa da insegnare e il rigore nei confronti dei lettori esige sempre nuovi salti di qualità.“. Il soggetto di Carlotto fa muovere i personaggi in ambientazioni care all’autore patavino; Buratti ed i suoi compagni di avventure dal Nord-Est si spostano in Sardegna per poi effettuare una puntata a Parigi. Luoghi, questi, nella realtà cari allo scrittore così come ad Igort. Nelle mani di quest’ultimo il soggetto , un «testo che somiglia molto ai suoi romanzi», diventa sceneggiatura e fumetto.

Da “storyteller” navigato e coautore nell’adattamento a fumetti, ne cura ritmo, scelte di tempo, inquadrature, tagli o aggiunte: sua la responsabilità (in senso positivo, ovviamente), ad esempio, dei lunghi didascalici intermezzi di racconto che giustamente rallentano il ritmo del racconto a fumetti (chiaramente più rapido); sua la responsabilità per aver dato vita (e visi) a personaggi che in precedenza esistevano solo nell’immaginazione dei lettori dei romanzi di Carlotto; sua la scelta di realizzare il romanzo grafico attraverso una bicromia azzurra lavorata con i mezzitoni della grafite. Igort, autore completo, di solito predilige ambientare i suoi lavori nel passato e comunque non ama essere schiavo della dettagliata rappresentazione di una realtà contemporanea fino al “fotografico”; la gentile offerta di Carlotto di collocare temporalmente la storia negli anni ’50 è stata declinata da Igort che ha piuttosto preferito, per salvaguardare quella che potremmo chiamare “continuity”, realizzare un volume ambientato al giorno d’oggi e abbastanza dettagliato. Questa voglia di realismo, pero’, sembra comunque sempre in secondo piano (può essere infatti interessante riconoscere i palazzi realmente ubicati in quel posto o le auto esattamente come sono nella realtà); negli occhi resta, più che altro, una coerente e costante qualità nelle molte pagine disegnate. Una qualità, questa, decisamente Igortiana.

Una tavola della graphic novelLa scelta della tecnica utilizzata è precisa ed è, al contrario di quanto sopra evidenziato, fatta per privilegiare il mood, l’ambiente, accompagna il lettore e si fa accompagnare nel racconto da una malinconia quasi sempre presente sui visi dei protagonisti. E magari alla fine lascia l’impressione di aver visto la storia quasi in sogno, intravista con gli occhi ancora pieni di fumo di un locale in cui si suona jazz o di acqua salata dopo essere usciti dal mare. Il tratto non è mai netto, i mezzitoni accennano, coprono e creano allo stesso tempo i lineamenti dei personaggi, finalmente reali e tangibili nell’invenzione somatica di Igort; l’Alligatore è il più sfuggente di tutti, un po’ anonimo e probabilmente meno caratterizzato degli altri, considerando che è il protagonista.
Ma si tratta di scelta voluta, a sottolineare la sua malinconica voglia di essere ai margini, quasi assente, il suo non voler essere al centro dell’attenzione, ad iniziare dalla copertina, dove cede il primo piano a Beniamino Rossini, impeccabile nei suoi completi da mafioso.
Il personaggio femminile è plasmato sulle fattezze di Patti Pravo e la sua somiglianza è parte integrante dell’intreccio; è questa, infatti, la storia di una donna che replica stancamente il repertorio della cantante (sosia anche nel lavoro) in piccoli localini; in realtà la sua vita è il tentativo di riempire, con il corpo e la voce di un’altra persona, il vuoto che colma la sua esistenza. Una figura simbolo di un modo di intendere la vita, mascherandosi e fingendo di essere altro da sé, molto attuale E sicuramente triste. La scenografia, invece, è caratterizzata da semplici quanto efficaci tocchi di colore e grafite; apprezziamo la luce degli esterni sardi, l’azzurra oscurità degli interni dove ci si prepara all’azione o dove si svolge, rapidamente come uno schiaffo dato con violenza (e con la pistola in pugno), l’azione stessa o la tipica malinconia dei lungomari deserti fuori dalla stagione balneare.

Di per sé decisamente carlottiano, l’intreccio è farcito dalle tematiche care all’autore che facilmente si riconoscono in molti dei suoi romanzi; la giustizia che è spesso giusta solo quando non amministrata nei tribunali; il viaggio come necessità di fuggire da problemi irrisolvibili; la media borghesia che nasconde negli armadi delle sue case di lusso gli scheletri dei traffici che hanno permesso loro di comprarsele; la facilità con la quale anche (soprattutto?) i tutori dell’ordine cedono alla tentazione del danaro facile con mezzi illegali; la malinconia dell’Alligatore ed un suo progressivo sconforto nei confronti della società E del genere femminile.

Per concludere, un’ultima annotazione per nulla marginale. Anche in “Dimmi che non vuoi morire” la musica, le canzoni, così come in tutti i romanzi (in tutte le opere, dovremmo dire) di Carlotto, diventano parte integrante della narrazione, addirittura il protagonista è un ex musicista,[3] la protagonista canta per (soprav) vivere, il titolo è addirittura lo stesso di una canzone di Vasco Rossi e Gaetano Curreri.
Lo stesso Igort ha un suo gruppo musicale[4] ed anche, ovviamente, Carlotto è un musicista, e, come Izzo, utilizza le canzoni e la musica “per scardinare la memoria stessa e riproporla con un punto di vista diverso”. Motivo in più, ci sentiamo di aggiungere, per dedicarsi alla lettura di questo romanzo e magari, a ritroso, andare a cercare gli altri “Alligatori” realizzati senza le matite di Igort o gli altri volumi a fumetti di Igort non scaturiti da un soggetto di Massimo Carlotto. Cosa che, ovviamente, non potrà che farvi del bene.

Note
[1] A tal proposito ci sentiamo di suggerirvi uno scrittore che, ambientando i suoi neri/polizieschi in una contemporanea ed abbastanza scalcagnata Grecia, dona alle sue storie un profumo abbastanza simile a quello italiano. Si tratta di Petros Markaris.
[2] Sono 5 i volumi che ne narrano le avventure, pubblicati sempre per le edizioni “e/o”: La verità dell’Alligatore (1996), Il mistero di Mangiabarche (1997), Nessuna cortesia all’uscita (1999), Il corriere colombiano (2000), Il maestro di nodi (2002, con cui si è aggiudicato il Premio Scerbanenco)
[3] Gli “Old Red Alligators”
[4] Molti i gruppi di cui ha fatto parte, l’ultimo è “Igort & the Lo Ciceros”

Per i riferimenti web si veda l’intervista.

Comments are closed, but trackbacks and pingbacks are open.