Diabolik: Le ferite del passato

La quarta uscita per la seconda serie de I Classici del fumetto di Repubblica è stato dedicato al personaggio simbolo della casa editrice Astorina, la quale aveva ricevuto due gentili omaggi già nella prima collana, con un volume per Diabolik ed uno per la sua donna, Eva Kant. La seconda serie, pero’, si differenzia dalla prima per molte cose: formato grafico, qualità di stampa e della carta, nonché per il criterio di scelta delle storie. Nel caso specifico il volume si apre dietro una davvero lussuosa copertina, con il titolo a rilievo in colore oro, e un’immagine di Facciolo che ritrae Diabolik stesso e la pantera nera dalla quale il nostro (ehm…) eroe ha preso il nome. Il formato è più grande (si tratta di formato comic book Usa) e la carta è più sottile del volume precedente, ma soprattutto lucida; questa differenza di carta e formato cambia e non poco la resa del fumetto.

Ogni disegnatore sa bene, quando realizza le tavole di un fumetto, il formato nel quale sarà poi stampato; il modo di disegnare e gli “effetti speciali” da utilizzare sono fortemente condizionati dalla resa finale. Nel caso di Diabolik, il formato tipico di sempre (il cosiddetto “pocket”) e la carta usata (non proprio eccezionale), sono le linee guida che indirizzano il lavoro dei disegnatori verso criteri di scelta di realizzazione ben precisi.
Normalmente, quindi, le pagine del formato di Diabolik sono piccole, ed è impossibile pensare di poterle riempire di vignette: sono due o tre, più lunghe che larghe e quasi sempre sviluppate in orizzontale. La linea utilizzata nei disegni, da Zaniboni in poi, è quasi sempre netta, squadrata, moderna. I contorni sono decisi, rigidi, puliti. Gli ambienti nei quali si calano i personaggi sono architettonicamente all’avanguardia, puliti, spesso asettici. Non ci sono sfumature né drappeggi eccessivi, né quasi mai tratteggi a delineare le profondità: tutto è bianco o, molto più spesso, nero; tutto il resto è colorato dai retini, altra caratteristica tipica di questo fumetto, a indicare ombre sui visi, superfici metalliche, altri colori che non siano bianchi e neri.
Tutto questo è sempre stato stretto nella paginetta piccola del formato pocket, eppure ci sono state, negli ultimi anni, delle pubblicazioni che hanno leggermente allungato ed allargato le pagine (albi speciali che ormai hanno una determinata frequenza, raccolte particolari, volumi speciali fuori serie) con risultati non sempre eccezionali. Nel complesso, dietro la copertina accattivante nei colori e nella scelta dell’immagine (ma forse un po’ discutibile nell’utilizzo del secondo “font” per il titolo del volume e per le poche righe in quarta di copertina), il volume che abbiamo nelle mani ci offre un buon risultato grafico, nonostante i disegni in parte dimostrino la loro età – parliamo della prima storia, di enorme valore storico, del 1968 – e nonostante Diabolik non sia in assoluto un fumetto che lascia al disegnatore la possibilità di impressionare i lettori. Lo stile netto e pulito con grandi vignette (quasi sempre solo due per pagina), il netto risaltare su carta lucida (finalmente!) dei neri e dei retini, contribuiscono a un risultato gradevole, non pesante e sicuramente apprezzato dai fan del Re del Terrore , che vedranno il volume come una ristampa di lusso di storie sicuramente già lette.

Il nuovo lettore di Diabolik che affronta questo albo, invece, si trova alle prese con l’ottimo criterio di scelta adoperato dai curatori di questa seconda serie. Se nella prima si era in tanti casi “pescato” fra le storie dei personaggi, questa volta la cernita si fa molto più filologica, e quella stampata in Le ferite del passato è una vera e propria trilogia delle origini di Diabolik.
Raccordate da pagine che legano i tre racconti come se fossero tre episodi di un reportage televisivo faticosamente realizzato dal giornalista Preston , le tre storie sono rispettivamente del 1968, del 1998 e del 2002. Questa voglia di legare le tre storie, come anche la scelta delle stesse, è forte indice della volontà di offrire al lettore un quadro complessivo, e in qualche modo accattivante, del personaggio.
Come era d’uopo per tutti i protagonisti dei fumetti del dopoguerra, Diabolik entra in scena nella sua prima storia quando (perdonateci la ripetizione) è già Diabolik, ovvero è già ladro e assassino famigerato, temuto e ricercato dalla polizia per essere mandato sulla ghigliottina (lode al politically incorrect dell’epoca!). Non c’é genesi del personaggio, non ci sono descrizioni di eventi eccezionali, non c’é un flashback sul perché sia diventato ladro. Siamo nel lontanissimo 1962 e il ladro senza scrupoli, il cosiddetto Re del Terrore, è, nel suo primo albo, già oggetto di discorsi impauriti di persone che temono per i loro patrimoni e le loro stesse vite. Con il passare delle storie e del tempo, di Diabolik si riesce a scoprire comunque ben poco. Eva Kant diventa immediatamente la sua compagna di vita e di malefatte e tutto, ma davvero tutto l’interesse della serie ruota attorno al presente della coppia (leggasi furti e rapine in atto) ed al loro futuro (leggasi furti e rapine da fare).

Ma il grande successo spinge gli autori a rivelare qualcosa del personaggio e del suo passato: l’anno è il 1968 e la storia è la prima che troviamo ripubblicata nel volume de La Repubblica. Dietro una copertina enigmatica con Diabolik e l’ Ispettore Ginko entrambi legati e prigionieri ed un titolo d’effetto Diabolik, chi sei? si svolge la vicenda, che gira attorno ad una semi-confessione del ladro-assassino al nemico di sempre mentre, nello scantinato di una casa, legati e prigionieri di malviventi senza scrupolo, sembrano essere pronti ad essere giustiziati. Poche parole, poche vignette. Una narrazione secca, asettica, quasi chirurgica. Diabolik ci racconta della sua infanzia da orfano, ritrovato su una barca in balia delle onde (e ci si chiede se mai si scoprirà chi erano i suoi genitori.) ed ospitato in una piccola isola abitata soltanto da ladri e truffatori. Un’oasi felice, la potremmo definire, per i professionisti del crimine, che dedicano il loro tempo all’esercizio ed alla preparazione di nuovi colpi.
Cresciuto quindi in questo paradiso del giovane ladro, Diabolik dimostra la sua intelligenza nello scoprire la formula chimica che gli permette di realizzare le ormai famose maschere che gli permettono di cambiare sembianze. Questa scoperta lo porta a diretto contatto con il vero e proprio ras dell’isola, interessato a come la stessa possa essere sfruttata nel miglior modo possibile. È chiaro che un giovane criminale astuto e intraprendente come il nostro non rivelerà mai il segreto delle sue maschere a nessuno: prima che King (é questo il nome del ricchissimo criminale che regna sull’isola) possa uccidere il ragazzo, avviene il contrario, proprio sotto gli occhi vitrei della pantera nera imbalsamata che gli darà il nome di Diabolik, mentre quest’ultimo indossa la sua prima maschera, con le fattezze di King, e fugge indisturbato con il suo primo, enorme bottino. Dicevamo dell’asetticità della storia; Diabolik non prova rimorso per i suoi crimini e racconta questa prima drammatica esperienza assassina, così come la sua infanzia (senza affetto e affetti), con freddo distacco. Un passato, quello di Diabolik, che non viene mai o quasi riportato alla luce se non, in pratica, in questa e nelle altre due storie pubblicate nel volume.

La seconda storia, raccordata alla prima con lo stratagemma narrativo che le dipinge come puntate di uno special televisivo, è molto più recente e si ricollega ad un discorso generale di restyling del personaggio (che tratteremo a breve sulle pagine virtuali de LoSpazioBianco); il disegnatore è sempre Facciolo, che è tornato a lavorare sul mensile dell’Astorina dopo decenni durante i quali si è dedicato ad altre attività (la grafica pubblicitaria). C’é il ritorno in scena (dopo tanti anni) di uno dei personaggi che abitava sull’isola dell’infanzia di Diabolik; questo succede perché il nostro trova, per caso, una statuetta raffigurante la pantera nera imbalsamata di King che faceva parte proprio del tesoro di quest’ultimo. Il viaggio a ritroso per scoprire la provenienza di questa statuetta, ed eventualmente anche del resto del tesoro dell’isola (perdonate l’amenità), ci porta ad uno scontro/incontro con lo scienziato che aveva insegnato i primi rudimenti di chimica a Diabolik, salvo poi essere letteralmente superato dall’allievo, in grado di costruire quelle maschere che proprio Wolf(é questo il suo nome) non è riuscito a realizzare. Qui il pretesto (la ricomparsa di un oggetto di valore che riapre le porte del ricordo del passato quasi sepolto) è simile allo stesso utilizzato per narrare una storia in flash back sul passato di Eva Kant. La voglia di costruire storie che “facciano” storia è esponenzialmente cresciuta fra gli autori di Diabolik, che sempre più spesso si cimentano con racconti che cercano di intrecciare vicende passate del nostro per costruire una linea narrativa che dia spessore al personaggio e non lo renda semplicemente protagonista di one-shot (albo singolo perfettamente leggibile a se stante).

Un solo piccolo accenno alla terza storia, ancora più recente (Ritorno all’Isola di King del 2002). In essa Diabolik costruisce un piano (oseremmo dire Diaboliko, se non fosse una boutade inflazionata) per provare a recuperare quanto di valore c’era nel relitto abbandonato al largo dell’Isola di King che si presume sia la nave dalla quale poi era stata calata la scialuppa con dentro un Diabolik bambino. Della vicenda, abbastanza complicata come spesso accade quando Alfredo Castelli ci mette la penna e il mouse, segnaliamo solo l’apparizione, come guest star, di Ponson, famoso mezzobusto di Clerville. Quest’ultimo, infatti, ha le fattezze (e la camicia senza cravatta) di Maurizio Costanzo. Ma non solo questo è il punto interessante della vicenda: alla fine della stessa, infatti, gli autori mettono in discussione quanto detto praticamente in tutto il volume: è lo stesso Diabolik a far notare che una parte delle sue origini (quando era piccolissimo) non sono frutto dei suoi ricordi, ma di quello che gli hanno raccontato le persone che lo hanno cresciuto. Quindi, colpo di teatro, può anche essere che buona parte di quello che abbiamo letto sia falso.

È con quesa nota dubbiosa che si chiude il volume “Le ferite del passato“. Crediamo che, come già detto, il livello qualitativo della stampa, della scelta delle storie e dei redazionali ne facciano un albo sicuramente interessante, che racchiude in sé le tre storie che più hanno cercato di mettere ordine e, contemporaneamente, dubbi nelle teste dei lettori di Diabolik.

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